Palazzo del Vento a Jaipur |
La città dalle nove porte. Nella tradizione induista l’uomo è spesso definito come navadvare pure, la città dalle nove porte o, in altri testi, ekadasavara pure, la città dalle undici porte. Con questa metafora si fa riferimento alle aperture, ai fori presenti nel corpo umano che è visto come una fortezza abitata dallo Spirito.
Le nove porte sono i due occhi, le due narici, i due orecchi, la bocca, l’ano e l’organo genitale. A ciò si aggiungono – quando si parla di undici porte – l’ombelico e la sutura sagittale, il punto del cranio in cui si uniscono e dal quale esce l’atman durante la cremazione del cadavere.
Possiamo trovare questa metafora in molti testi sacri.
Già nell’Atharva Veda (X, 2, 31) si fa riferimento a questa città in un inno che così recita: “la città di Dio, inespugnabile, con otto cinte murarie e nove porte contiene un Tesoro d’oro, celestiale,”
Altro riferimento alla città (o fortezza) questa volta di undici porte si trova nella Katha Upanishad (II 5, 1) dove si fa riferimento ad essa come alla città appartenente all’increato Atman.
Anche nella Bhagavad Gita (5, 13) si dice, “rinunciando mentalmente ad ogni azione, l’anima incarnata, padrona di sé, sta felice nella fortezza dalle nove porte senza agire né far agire.”
Nel Bhagavada Purana c’è addirittura un lungo racconto che si basa sull’allegoria della città dalle nove porte abitata dal re Puranjana.
Con questa metafora si vuole evidenziare che il Sé, l’atman, risiede in questa fortezza le cui porte sono tutte rivolte verso l’esterno, verso cioè gli stimoli che giungono dall’esterno o che all’esterno sono destinati e che allontanano dalla verità e dalla vera conoscenza, quella dell’Atman e della sua identità col Brahman.
Per questo si dice che “le finestre dei sensi sono aperte verso l’esterno e per questo si vede ciò che è fuori e non ciò che è dentro di noi. Ma qualche saggio desideroso dell’immortalità, rivolgendo lo sguardo verso l’interno, vide entro se stesso l’atman.” E mai più nacque né morì.