Visualizzazione post con etichetta Atharva Veda. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta Atharva Veda. Mostra tutti i post

sabato 10 settembre 2011

Sati e l'autoimmolazione delle vedove

Sati, stampa dell' '800
Che cosa avrà pensato Roop Kanwar, 18 anni, quando ha preso tra le proprie braccia il capo del marito morto e adagiato sulla pira funebre? Cosa avrà sentito quando, dopo i rituali tre giri intorno al cadavere, il cognato ha appiccato il fuoco alla catasta di legna su cui giacevano lei, viva, ed il marito, morto? Quanto avrà sofferto quando il fumo della pira l’ha circondata e le fiamme l’hanno ghermita fino a bruciarla viva?
Si tratta dell’anugamana (che in sanscrito significa 'seguire') o del sahamarana (leteralmente saha=insieme, marana=morte), universalmente conosciuto come ‘sati’ (o suttee) che in sanscrito significa ‘fedeltà’ ed è il nome della prima sposa di Shiva che, offesa per lo sgarbo che suo padre Daksha fece al divino sposo, si autoimmolò bruciandosi.
E’ un’usanza vietata in India dal 1839 ed oggi abbastanza rara, ma della cui pratica in più o meno remoti villaggi del subcontinente (soprattutto in Rajasthan e Bengala) ogni tanto si hanno purtroppo ancora notizie. E chissà di quante invece non abbiamo notizia.
Incredibilmente in India – a fronte dei movimenti che si battono contro la sati e a favore della condizione femminile - sia tra la gente comune sia tra gli intellettuali ed i religiosi esistono ancora titubanze a condannare senza appello questo rituale (cfr. qui e qui)
L’ultimo caso di ‘sati’ ufficialmente riconosciuto risale al 2008, quando una donna di 75 anni si è gettata sul rogo del marito morto all’età di 80 anni nello stato del Chattisgarh. Precedentemente si ricordano sati nel 1973, nel 1978, nel 1987, nel 1988, nel 2002 e, due casi, nel 2006.
La pratica è/era in genere volontaria, ma in molti casi c’è stata una coercizione fisica o psicologica nei confronti della donna per costringerla o ‘convincerla’ ad autoimmolarsi (cfr. qui).
Il caso di Roop Kanvar, per esempio, fece molto scalpore perché a detta di molti era impensabile che nel 1987 una ragazza di 18 anni con un alto livello di istruzione seguisse volontariamente il marito defunto tra le fiamme andando incontro ad una morte atroce.
In passato sono stati attestati non solo casi in cui la moglie era addirittura legata sulla pira funebre, ma anche casi in cui era stata drogata con bhang o oppio per fiaccarne la resistenza e la volontà.
Il rito della sati non si ritrova nei Veda – principali testi sacri dell’induismo – che per la vedova prescrivono il matrimonio col fratello del marito o con altro prossimo congiunto. Troviamo però un cenno, non si sa a che periodo risalente, dell’usanza nell’Atharva Veda dove si ricorda che “ogni donna virtuosa si brucia assieme al cadavere del marito”.
Anche gli episodi di sati che sono narrati nei due poemi epici Mahabharata e Ramayana, paiono aggiunte tardive.
Gli studiosi in prevalenza ritengono che l’origine della vergognosa usanza – nata nel VII secolo a.C. e diffusa soprattutto, ma non solo, tra la casta superiore dei brahmani – sia diretta conseguenza della divisione castale e degli obblighi di endogamia conseguenti. La sati infatti è strettamente legata ad altri fenomeni inaccettabili come il matrimonio in giovanissima età con marito anziano e come il divieto di risposarsi e le altre restrizioni sociali per le vedove.
Il marito per la donna indiana è come un dio, la moglie lo deve servire e venerare, lo deve seguire nella vita e precederlo nella morte. Di conseguenza una moglie senza il marito, senza il suo dio, non ha ragione di esistere anzi potrebbe diventare un problema per la rigida concezione castale. Una donna vedova infatti difficilmente potrebbe trovare un altro marito in India tra gli uomini di pari casta e quindi potrebbe essere portata a sposare uomini di casta diversa, violando la principale regola castale che vieta la mobilità tra caste. In effetti la condizione della vedova nell’India tradizionale, e talvolta nei villaggi ancora oggi, è particolarmente difficile, quando va bene la donna restava a servire nella famiglia del marito, doveva dormire per terra e poteva mangiare solo cibi non conditi.
Spesso le vedove ancor oggi vengono inviate in conventi o case di accoglienza dove, rasate e vestite di bianco (colore del lutto in India), passano il loro tempo a pregare nei templi o, se giovani, a prostituirsi come possiamo leggere nel bel libro ‘Acqua’ di Bapsi Sidhwa dal quale è stato tratta l’omonimo film diretto da Deepa Mehta.
A quanto riportano le cronache, il terribile rito è/era celebrato in modo solenne, la moglie che si immola si veste con gli abiti del matrimonio, si reca in processione sul luogo della cremazione e, dopo aver girato per tre volte intorno alla pira del marito salmodiando sacri mantra, sale sulla catasta di legna e si adagia accanto allo sposo per essere arsa viva insieme al defunto. La vedova che si autoimmola viene poi venerata come una dea tanto che sul luogo della cremazione sono stati costruiti santuari e templi.
Attualmente le leggi indiane prevedono pene molto dure per chi organizza, promuove, incentiva o anche assiste ad una sati, è anche vietato costruire altari o templi o recarsi a pregare sui luoghi dove la sati è avvenuta.

domenica 28 agosto 2011

Kama, il dio dell'amore


Kama insidia Shiva

Il demone Taraka era diventato troppo potente e minacciava gli dei ed il loro potere, doveva essere eliminato, ma grazie ad una concessione di Brahma, Taraka poteva essere ucciso soltanto dal un figlio di Shiva.
Il grande dio però, dopo la morte della moglie Sati, era in perenne meditazione, doveva essere svegliato dal suo stato affinché si innamorasse di Parvati e con lei avesse quel figlio che avrebbe salvato gli dei.
Kama, il dio dell’amore, viene allora inviato a distogliere Shiva dalla meditazione. Appena Kama giunge sul suo pappagallo i fiori sbocciano, il clima si fa mite, l’aria è intrisa di profumo. Kama è infatti sempre accompagnato da Vasant e dalla sua sposa Rati (Desiderio o Lussuria), il Signore della primavera. Shiva resta in meditazione, Kama prende il suo arco fatto di canna di zucchero e con la corda, fatta di api, scocca una delle sue cinque frecce ciascuna delle quali al posto della punta ha un fiore.
Shiva si risveglia dalla sua meditazione ed apre il suo terzo occhio che incenerisce in un sol colpo Kama.
Rati, la sposa di Kama, disperata si cosparge il corpo con le ceneri del marito ed implora Shiva di farlo tornare in vita.
Il grande dio, commosso, promette a Rati che Kama rinascerà come Pradyumna, figlio di Krishna e Rukmini.
Kama è il dio dell’amore. Molti saggi sono stati distratti nelle loro meditazioni ed austerità da questo dio, spesso inviato da Indra proprio a distogliere gli umani che si avvicinavano troppo alla divinità.
Nasce da se stesso o è figlio di Dharma e di Shradda, in altre tradizioni è figlio della dea Lakshmi. Sul suo vessillo rosso è dipinto il pesce Kamara ed il sua vahana è un pappagallo.
E’ chiamato anche Smara (Ricordo), Dipaka (L’infiammatore), Manmatha (Colui che turba lo spirito), Ishma (il possessore di frecce),  Mada (Ebbrezza), Shamantaka (Distruttore della pace).
Kama (काम), in sanscrito, significa amore, amare si dice kamayati (कामयति) e "io ti amo" si dice "tvam kamayami" (त्वां कामयामि).
Prima di essere il dio mitologico dell’amore, Kama è un importante concetto metafisico che compare già nei Veda. E’ il desiderio, il motivo per cui l’Uno indistinto si fece molteplice (cfr. post).
Il bellissimo inno del Rig Veda (X, 129) che narra dell’inizio dei tempi  ci ricorda come Kama, cioè il desiderio, fu il germe originale della creazione e in tal senso è Aja, cioè Non nato, e Ananyaja cioè Nato da nessun altro o anche Atmabhu, l’esistente di per se stesso. L’Atharva Veda invece lo chiama ‘motore della creazione’ e ‘primo nato’.
Kama è anche uno dei quattro purusartha, gli scopi che ogni uomo deve perseguire durante la sua vita terrena che sono dharma, cioè la rettitudine morale, artha, cioè il benessere materiale, kama appunto, cioè la soddisfazione dei desideri ed infine moksha, cioè la liberazione dal samsara, il ciclo delle rinascite.

Kama, the God of love

Kama on his parrot
The demon Taraka had become too powerful and threatening the gods and their power. He had to be eliminated, but thanks to a grant of Brahma Taraka could be killed only by a son of Shiva.
The great god, however, after the death of his wife Sati, was in perpetual meditation, had to be woken from his state to fall in love with Parvati and to generate with her a son who would save the gods.
Kama, the god of love, is then sent to distract Shiva from meditation. Kama just come on his parrot flowers bloom, the weather is mild, the air is full of perfume. Kama is in fact always accompanied by his wife Rati (Lust or Desire) and Vasant, the Lord of the spring. Shiva is in meditation, Kama takes his bow made of sugar cane and by the rope, made of bees, he strikes one of his five arrows each of them instead of the tip has a flower.Shiva from his meditation awakens and opens his third eye that incinerates Kama in one fell swoop.Rati, Kama's wife, desperate sprinkle the body with the ashes of her husband, and implored Shiva to bring him back to life.
The great god, moved, promises that Kama reborn as Pradyumna, son of Krishna and Rukmini.
Kama is the god of love. Many shadu have been distracted in their meditations and austerities by this god, often sent by Indra to distract the humans who just got too close to the deity.
He was born from himself or he is the son of Dharma and Shradda, in other traditions he is the son of the goddess Lakshmi. On his red banner is painted the fish Kamara and his Vahana is a parrot.
He i salso called Smara (Memory), Dipak (Inflammation), Manmatha (the one who disturbs the spirit), Ishma (the owner of arrows), Mada (Drunkenness), Shamantaka (Destroyer of peace).
Before being the mythological god of love, Kama is an important metaphysical concept that already appears in the Vedas. He is the desire, why the One became indistinct multiple (see post).
The beautiful hymn of the Rig Veda (X, 129) which tells the beginning of time reminds us as Kama, the desire was the seed of the original creation and in this sense he is Aja, that is not born, Ananyaja, Born from nobody, Atmabhu, the existing by itself. The Atharva Veda instead calls him 'Engine of creation' and 'First Born'.

Kama  (काम) in sanskrit means love, to love is kamayati (कामयति) and "I love you" is "tvam kamayami" (त्वां कामयामि).
Kama is also one of the four purusarthas, the goals that every man should pursue during his earthly life: dharma, or moral rectitude, artha, or material wealth, kama, that the satisfaction of desires and finally moksha, or liberation from samsara, the cycle of rebirth.

domenica 27 febbraio 2011

La città dalle nove porte

Palazzo del Vento a Jaipur
La città dalle nove porte. Nella tradizione induista l’uomo è spesso definito come navadvare pure, la città dalle nove porte o, in altri testi, ekadasavara pure, la città dalle undici porte. Con questa metafora si fa riferimento alle aperture, ai fori presenti nel corpo umano che è visto come una fortezza abitata dallo Spirito.
Le nove porte sono i due occhi, le due narici, i due orecchi, la bocca, l’ano e l’organo genitale. A ciò si aggiungono – quando si parla di undici porte – l’ombelico e la sutura sagittale, il punto del cranio in cui si uniscono e dal quale esce l’atman durante la cremazione del cadavere.
Possiamo trovare questa metafora in molti testi sacri.
Già nell’Atharva Veda (X, 2, 31) si fa riferimento a questa città in un inno che così recita: “la città di Dio, inespugnabile, con otto cinte murarie e nove porte contiene un Tesoro d’oro, celestiale,”
Altro riferimento alla città (o fortezza) questa volta di undici porte si trova nella Katha Upanishad (II 5, 1) dove si fa riferimento ad essa come alla città appartenente all’increato Atman.
Anche nella Bhagavad Gita (5, 13) si dice, “rinunciando mentalmente ad ogni azione, l’anima incarnata, padrona di sé, sta felice nella fortezza dalle nove porte senza agire né far agire.”
Nel Bhagavada Purana c’è addirittura un lungo racconto che si basa sull’allegoria della città dalle nove porte abitata dal re Puranjana.
Con questa metafora si vuole evidenziare che il Sé, l’atman, risiede in questa fortezza le cui porte sono tutte rivolte verso l’esterno, verso cioè gli stimoli che giungono dall’esterno o che all’esterno sono destinati e che allontanano dalla verità e dalla vera conoscenza, quella dell’Atman e della sua identità col Brahman.
Per questo si dice che “le finestre dei sensi sono aperte verso l’esterno e per questo si vede ciò che è fuori e non ciò che è dentro di noi. Ma qualche saggio desideroso dell’immortalità, rivolgendo lo sguardo verso l’interno, vide entro se stesso l’atman.” E mai più nacque né morì.

The town with nine gates


Jaipur

The town with nine gates. In the Hindu tradition, man is often referred to as navadvare pure, the town of nine gates, or in other texts, ekadasavara pure, a town with eleven gates. This metaphor refers to the openings, the holes in the human body which is seen as a fortress inhabited by the Atman.
The nine doors are the two eyes, two nostrils, two ears, mouth, anus and genital organ. In addition – assumption of eleven gates - the navel and the sagittal suture in the skull join together and from which the Atman comes during the cremation of the corpse.
We find this metaphor in many sacred texts.
Already Atharva Veda (X, 2, 31) refers to this city in a hymn which reads: "The fort of God, impregnable, with eight circles and nine portals contains a golden treasure-chest, celestial, with begirt
Light. "
Another reference to the city (or fortress) this time of eleven gates is located in the Katha Upanishad (II 5, 1) which refers to it as "city belonging to the unborn Atman.”
Even in the Bhagavad Gita (5, 13) says, "having renunced all actions with the mind, the embodied Self sits easily, ruler In Its nine-gated city, acting neither cause nor action."
In the Bhagavad Purana there is even a long story that is based on the allegory of the nine gates of the city inhabited by King Puranjana.

With this metaphor we want to underline that the Self, the Atman, resides in this castle whose doors are all facing outwards, facing the stimuli that come from outside or outside are intended. This moves away from the truth and the true knowledge that Atman and its identity with Brahman.
Therefore it is said that "the Self-existent pierced the openings of the senses so that they turn forward: therefore man looks forward, not backward into himself. Some wise man, however, with his eyes closed and wishing for immortality, saw the Self behind. "And he didn’t born and died anymore.