venerdì 31 dicembre 2010

Le origini dell'Universo

Anche nell’induismo, come in tutte le altre tradizioni e culture (e forse prima di queste culture), ci si è posti il problema del come e del perché Dio o comunque l’Essere supremo, il Brahman ha creato l’universo, la molteplicità, l’altro da Sè.
Abluzioni rituali
Ovviamente c’è una ben comprensibile reticenza ad indagare e spiegare ‘l’origine dell’origine’, come è nato l’”increato” Brahman, cosa c’è (se c’è qualcosa) sopra e prima di lui, anzi in proposito nella Brhadaranyaka Upanishad, testo databile tra l’VIII e il VI sec a.C., a chi indaga sulla questione il saggio Yajnavalkya risponde pressappoco così: “Tu domandi oltre ciò che è consentito, tu domandi di un dio oltre il quale niente deve essere domandato” (III, 6, 1).
Indaghiamo allora su come è nato ciò che sta ‘sotto’, ‘dopo’ il Brahman.
Come si legge nel Rig Veda (X, 129) “in principio non c’era niente, non c’era l’essere né il 'nonessere', non c’era l’aria e neppure il cielo oltre ad essa, non vi era la morte né l’immortalità, non c’era né giorno né notte. L’Uno respirava senza respiro, oltre a quello non c’era altro.”
Ecco, mancava il concetto dell’alterità. Grazie al suo fervore o calore (tapas), l’Uno “venne in essere” e “separò l’essere dal non essere”. Da questo ardore venne generato l’ordine cosmico, la notte, l’oceano, l’anno, il sole e la luna, il cielo e la terra, l’atmosfera e la luce (Rig Veda  X, 190).
Per la creazione della molteplicità degli altri esseri viventi mi piace ricordare di nuovo la Brhadaranyaka Upanishad, che ci racconta come in origine, anche se un’origine non c’era stata perché il tempo non era stato creato né il prima né il dopo, c’era solo quello che abbiamo chiamato l’Essere supremo senza secondo, lui, niente altro.
Egli non provava piacere, perché il piacere non appartiene a chi sta solo. Allora desiderò un secondo. La sua estensione divenne pari a quella di un uomo e di una donna abbracciati, quindi si divise in due esseri, creando così la donna. Per questo quel vuoto che l’uomo sente dentro di sé viene colmato dalla donna.
Una volta creata la donna, l’Essere si unì a lei e nacquero gli uomini.
Ma la donna pensò: “Come può lui congiungersi con me, dopo avermi generato da sé? Non è cosa buona, devo nascondermi.” E si trasformò in vacca, ma lui si trasformò in toro e si unì a lei. Così nacquero le vacche. La donna allora si trasformò in giumenta, lui in stallone e si unì a lei. Così nacquero i cavalli. Lei si trasformò in asina, lui in asino e si unì a lei. Così nacquero gli asini. Lei divenne capra, lui caprone. Così nacquero gli ovini. In questo modo, da trasformazione in trasformazione vennero generati tutti gli esseri viventi fino alle formiche e al più piccolo degli insetti (cfr. Brhadaranyaka Upanishad I, 4, 1- 4)

sabato 25 dicembre 2010

L'immagine di Shiva

La figura di Shiva, una delle principali e più antiche divinità dell’Induismo, mi seduce molto nella sua (apparente) contraddittorietà: Mahayogi (Grande yogi) e mendicante, asceta e seduttore, creatore dell’Universo nella meravigliosa danza cosmica del Nataraja e distruttore del mondo, dio benefico (in sanscrito Shiva significa propizio, benevolo, fausto) e dio della morte e della dissoluzione,  dio potente e creatore che ha nel lingam (il fallo) il suo simbolo e dio mezzo uomo e mezza donna nel suo aspetto androgino di Ardhanarishvara.
Shiva ha molteplici forme e molteplici aspetti, nello Shiva Purana si contano 1008 nomi del grande dio sui quali un giorno tornerò a scrivere.
Oggi voglio soffermarmi su una delle più diffuse rappresentazioni del Dio per analizzare posizione, attributi, mudra, cioè gesti delle mani.
Nella prima mmagine pubblicata in questo post, lo vediamo seduto nella posizione del loto (padma asana) sopra una pelle di leopardo (in altre immagini è di tigre o di daino) lo stesso tipo di pelle che ne costituisce unica veste.
Shiva ha tre occhi, per questo è anche detto Trinetra o Tryamabaka (dai tre occhi appunto). Essi simboleggiano il sole, la luna e il fuoco, le fonti di illuminazione della terra, dello spazio e del cielo. Sono gli occhi che vedono il passato, il presente ed il futuro. Il terzo occhio, quello centrale, è detto gyana chakshu (occhio della saggezza), è l’occhio dello conoscenza trascendente, che non è rivolto all’esterno, ma all’interno, perché la verità non è fuori di noi, ma dentro di noi. E’ l’occhio col quale Shiva con un solo sguardo incenerì Kama il dio dell’amore che lo stava tentando.
Sulla testa il dio ha un crescente di luna al quinto giorno, simbolo della bevanda sacra soma, ma simbolo anche dell’oblazione del sacrificio e della potenza creatrice.
La fronte del dio presenta le tre caratteristiche strisce dello shivaismo.
Dai capelli legati in una crocchia (jata o jatamakuta) scaturiscono la sacre acque della Ganga, il fiume che scorre nel cielo come Via Lattea e che discese sulla terra per consentire la vita degli uomini.
Vari cobra sono avvolti sul corpo del dio, simbolo della morte, ma anche dell’energia. Il collo di Shiva è blu perché il dio bevve il veleno halahala emerso dal frullamento primordiale dell’oceano.
Al collo, oltre ad una ghirlanda di fiori, anche il rosario induista, il japamala formato da semi di rudraksha (occhi di Rudra, altro nome di Shiva), lo stesso che ha ai polsi.
Shiva ha quattro braccia, simbolo di potere universale, con una mano destra tiene il trishula (tridente) simbolo delle tre tendenze della natura (guna) o delle tre funzioni del dio: creazione, conservazione e distruzione dell’universo. Con una mano sinistra afferra il damaru, un piccolo tamburo formato da due triangoli uniti per il vertice che simboleggiano l’aspetto maschile e quello femminile dalla cui unione scaturisce l’universo.
Con la seconda mano destra il dio fa il gesto del ‘non temere’, l’Abhayamudra, mentre la sinistra  è nel Jnanamudra, il gesto della conoscenza.
Davanti al dio si erge un lingam (in sanscrito segno), il simbolo astratto del fallo, è la realtà immanifesta, il tutto che è e non è, e che si manifesta con l’unione con la yoni, l’energia femminile su cui spesso è appoggiato il lingam. Sul lingam, oltre alle tre strisce tipiche dello shivaismo, anche la sacra sillaba Om.
Alla destra del dio c’è una ciotola per raccogliere l’elemosina e un piatto di frutta, offerta sacrificale alla divinità.
Nella seconda immagine di Shiva pubblicata su questo post, oltre a quanto già detto, da segnalare il toro bianco Nandin, il vahana (veicolo) di Shiva la cui statua – soprattutto nell’India del sud – è posta innanzi alla stanza del tempio dove è collocato il dio affinché possa essere intermediario tra Shiva stesso ed i fedeli che sussurrano nell’orecchio dell’animale i voti offerti e le grazie richieste alla divinità come illustra la terza foto che ho scattato a Madurai (Tamil Nadu) nello splendido tempio dedicato alla dea Meenakshi.


sabato 18 dicembre 2010

Il tempo nell'Induismo

La concezione indiana del tempo non è lineare bensì circolare, ciclica. Non si procede cioè di attimo in attimo, di secolo in secolo, di millennio in millennio lungo una linea retta senza fine (o con una fine ignota e definitiva), ma si procede da attimo ad attimo, da millennio a millennio in una sorta di circolo che ha un inizio ed una fine per poi ricominciare.  
Una delle più diffuse modalità della divisione del tempo che risale ai tempi più antichi dell'India, è quella che divide ogni ciclo del mondo in quattro yuga che prendono i propri nomi dai quattro risultati nel gioco dei dadi (gioco diffusissimo in India se si pensa che nel Mahabharata i fratelli Pandava perdono il proprio regno e la propria libertà proprio in due tragiche partite ai dadi).
Le quattro epoche sono il krta yuga, il treta yuga, il  dvapara yuga e il kali yuga e il livello morale ed il benessere esistente nelle quattro ere va declinando col declinare del dharma, l’ordine morale, che nella prima era è nella sua pienezza, quattro quarti, per poi quasi sparire nell’ultima e peggiore delle ere il kali yuga, l’era in cui viviamo oggi.
Kalki, decimo ed
ultimo avatara di Vishnu 
Il krta yuga – detto anche satya yuga cioè l’era dell’essere, della verità - è l’età dell’oro e deriva il suo nome dalla radice sanscrita kr che significa fare, completare, perfezionare. E’ l’era “perfetta” ed è associata al numero quattro, simbolo di perfezione e di saldezza. E’ il colpo vincente ai dadi. In questo periodo l’uomo è virtuoso, rispetta volontariamente il dharma e la vita serena e pacifica. Il krta yuga ha una durata di 1.728.000 anni umani (cioè quattro volte 432.000), pari a 4.800 anni degli dèi.
Il treta yuga, associato al numero tre, è un’epoca ancora felice anche se inizia il decadimento, il dharma è diminuito e gli uomini lo rispettano solo perché obbligati. Il treta yuga ha una durata di 1.296.000 anni umani (cioè tre volte 432.000), pari a 3.600 anni degli dèi.
Il dvapara yuga (dal numero due) presenta una egual misura di dharma e adharma, l’ordine cosmico non è più rispettato e la vita non è più virtuosa. Il krta yuga ha una durata di 864.000 anni umani (cioè due volte 432.000), pari a 2.400 anni degli dèi.
Si giunge infine nella nostra era, il kali yuga, l’età nera, l’età del declino, è presente un solo quarto di dharma e la virtù è ormai perduta, egoismo, violenza, guerre, depravazione hanno il sopravvento.
Il kali yuga, iniziato con la morte di Krishna nel 3102 a.C. ha una durata di 432.000 anni umani, 1.200 anni degli dèi.
I quattro yuga costituiscono un mahayuga (grande yuga) che dura complessivamente 4.320.000 anni umani, cioè 12.000 anni divini, e alla fine del quale l’universo si dissolverà (pralaya, dissoluzione) e avrà luogo una nuova creazione. Mille mahayuga, cioè 4.320.000.000 anni umani, sono un kalpa, cioè un giorno e una notte di Brahma.

domenica 12 dicembre 2010

Induismo e Politeismo

Spesso con superficialità si pensa che gli indiani siano politeisti e si annovera l'induismo tra le religioni politeiste e pagane. Ciò deriva da ignoranza occidentale, da erronee traduzioni ed interpretazioni della parola sanscrita deva tradotta come dei mentre etimologicamente significa 'essere splendente'.
Hanuman
In realtà i molteplici 'dei' che gli induisti venerano non sono altro che manifestazioni dell'unico essere supremo, il Brahman. Attraverso i vari dei i devoti (coloro che praticano la bakti) cercano di raggiungere l'esperienza del Brahman.
Alain Danielou, in Miti e dei degli India, a proposito di monoteismo e politeismo è illuminante. Dio non è un numero - dice in sostanza Danielou - quindi non è nè 1 nè 2 nè 1.000, ma sicuramente 1 è ciò che di più lontano dall'infinito esista, non potendo avere un'immagine complessiva di Dio, forse ne abbiamo una un po' più esatta quando pensiamo a più divinità. Dio non può essere un numero, Dio è neti neti, nè questo nè quello. I vedantisti dicono che Dio è 'non due' è cioè l'Essere senza alterità, senza secondo.

Mente e cuore

Coloro che sanno vedere oltre le cose unendo la loro mente al loro cuore, trovano il vincolo che lega l'esistente al non esistente, il non esistente esistendo nell'esistente.

Nasadya Sukta