sabato 18 maggio 2013

Satyagraha

Non venne a Gandhi l'idea di coniare la parola satyagraha, bensì ad un suo parente, Maganlal Gandhi che rispose all'invito dello stesso Mahatma di trovare una parola più rappresentativa di resistenza passiva al movimento e alle lotte degli indiani in Sudafrica.
Maganlal propose Sadagraha che poi Gandhi cambiò in Satyagraha. Vediamone l'etimologia.
Satya è una parola sanscrita che deriva dalla radice sat che indica essenzialmente il verbo essere e conseguentemente il vero reale, ciò che non muta, cioè la Verità e in ultima analisi Dio. 
Agraha rimanda invece ad un concetto di perseveranza, di fermezza, può essere tradotto come insistenza su qualcosa, essere ostinatamente propensi o attaccati a qualcosa.
La parola Satyagraha pertanto può essere tradotta come fermezza nella verità, ostinata difesa della verità o, usando le parole di Gandhi, attaccamento alla verità.
Isatyagraha,  è "la forza che nasce dalla verità e dall'amore."
Satyagraha non è una tecnica, nè un movimento, nè uno strumento, per Gandhi satyagraha è una predisposizione dell'animo. 
Per attuare il satyagraha è pertanto necessario in primo luogo agire su se stessi."Satyagraha  - ricorda Gandhi - è il completo annullamento di sè, la più grande umiliazione, la più grande sopportazione e la fede più luminosa."
In perfetta coerenza con il pensiero hindu, Gandhi sa che la Verità non sta nell'io e nel mio e pertanto per raggiungere la Verità ed essere fermi nella Verità, è necessario annullare l'io ed ogni suo desiderio.
Prima regola del satyagraha è quindi l'autodisciplina: rapporti domestici, dieta, comportamenti individuali devono essere tutti caratterizzati dall'abbandono dell'io, del desiderio e dell'odio verso gli altri. 
Dopo il satyagraha può trasferirsi nei rapporti sociali e nella lotta politica dove il suo vero scopo è la trasformazione interiore dell'avversario. 
"Un satyagrahi - dice Gandhi - è morto nel corpo già prima che il nemico tenti di ucciderlo, cioè si è liberato dall'attaccamento al proprio corpo e vive solo per la vittoria dell'anima." A che serve quindi uccidere un uomo già morto?
L'avversario che vede questa pazienza, questa capacità di soffrire per la Verità, questo autoannientamento nell'affermazione della Verità, questa accettazione delle più dure conseguenze (anche la prigione o addirittura la propria morte) per rimanere "saldi nella Verità", porta alla vittoria finale, anzi è già di per sè una vittoria, in un capovolgimento di prospettiva che spiazza l'avversario e, alla fine, lo cambia e lo vince.
"Nel satyagraha - ci ricorda il Mahatma la difesa della verità non avviene infliggendo sofferenza all'avversario, ma a se stessi."




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