“Tu devi agire, ma non godere dei frutti delle tue azioni, non essere attaccato ai frutti delle azioni e non provare neppure attaccamento per il non agire.
Quello che devi fare fallo, però senza attaccamento alcuno. Resta con animo equilibrato e distaccato nel successo come nell’insuccesso.” (Bhagavad Gita II, 47,48)
Tra i problemi del pensiero filosofico hindu quello del rifiuto del mondo e della tendenza all’inazione è molto interessante.
Sappiamo che il mondo in cui viviamo non è altro che maya, illusione. Anzi è la manifestazione del Brahman, l’Essere Supremo, che nasconde il Brahman stesso.
Le nove porte dell’uomo sono tutte rivolte verso l’esterno, verso questa falsa realtà e i sensi e le passioni allontanano l’uomo dalla vera realtà, che è il Brahman che può essere raggiunta solo ‘guardando’ dentro di noi e non fuori.
Sembrerebbe quindi coerente con questa visione privilegiare l’inazione rispetto all’azione, l’ascesi rispetto al concreto vivere nel mondo.
E’ lo stesso dilemma che Arjuna, eroe pandava del Mahabharata, ha quando deve iniziare a combattere, ma vede nello schieramento opposto cugini, zii, amici, maestri ed è tentato di ritirarsi, di non agire appunto.
Krishna spiega all’eroe perché l’azione è preferibile all’inazione.
E’ la Bhagavad Gita – testo principe della mediazione e della sintesi tra le varie correnti di pensiero hindu – che teorizza il concetto di nishkama karma o naishkarmykarma, l’azione distaccata, l’azione che non si fonda sul desiderio, il compimento del dovere per il dovere, l’azione compiuta senza sperare in una ricompensa, l’azione libera da ogni impulso individuale.
Vivi nel mondo, ma non essere del mondo, agisci, ma in uno spirito di interiore rinuncia al mondo.
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